di Patrizia Mazzola (MDF Milano)
Nel mondo della vendita a tutte le ore, del profitto e del PIL, parlare di non crescere è come l’eresia nel medioevo: si è immediatamente accusati di voler distruggere ciò che ci ha permesso di avere progresso e benessere, si diventa dei terroristi pericolosi o degli squallidi conservatori.
La stessa parola sviluppo è diventata la litania di qualunque economista, sostenibile o non sostenibile, purchè sviluppo.
Non penso sia necessario semplicemente ridurre i consumi, per ripulire la nostra testa dall’idea velenosa di uno sviluppo infinito; credo che la decrescita felice sia l’occasione per una rivoluzione antropologica, animata dal desiderio di costruire un’esistenza più autentica, legata alla terra madre, non come richiamo nostalgico all’infanzia, ma come riappropriazione di radici culturali e scientifiche, finalizzate alla vita di tutti gli esseri, soprattutto delle donne, i cui ritmi naturali sono stati sacrificati sull’altare dell’efficientismo.
Eppure l’armonia con la natura non credo sia naturale, ma anche in questo caso è una forma umana, che il soggetto conoscente applica alla realtà per interpretarla, per avvicinarsela. I liberisti innamorati della crescita sono degli evoluzionisti, perchè sostengono che il sistema si autoregoli, abbia in sè criteri e correttivi che permettono lo sviluppo finalizzato al miglioramento: sembrerebbe davvero una visione spontaneistica… proprio qui sta l’inganno.
La natura procede con cicli di vita/morte/vita/… che devono farci riflettere su ciò che dobbiamo trattenere o lasciar andare per continuare a vivere; percepire questi cicli nell’ambiente e avvertirli dentro di sè non è facile, perchè i tempi del lavoro, così come è oggi, ce li negano.
Le donne non possono celarseli, se lo fanno si trasformano in “uome”: questo forse è il vantaggio del femminile, l’essere biologicamente costrette a confrontarsi con i cicli del sangue, della vita/morte/vita, mettersi faccia a faccia con la morte per apprezzarla, in quanto origine di vita…
La parola decrescita non piace, perchè come la morte richiama al lasciar andare, all’aprire le mani per mollare la presa: ma riuscirebbe il passero a prendere il volo se non mollasse il ramo, se non allargasse le ali, il fagiolo in terra potrebbe dare la pianta se non si consumasse, il figlio potrebbe essere uomo se la madre non lo partorisse, se troppo buona e sempre pronta a nutrire non morisse più?
Esiste perciò una conoscenza del corpo, nel corpo, con il corpo: sono tutte le cose che facciamo con le mani, che segnano i momenti del lavoro di cura, la giornata quotidiana con la preparazione dei cibi, la pulizia e la creazione di piccoli prodotti che rendono la vita apprezzabile. La nostra società non ha mai valorizzato tutto ciò, al contrario l’ha svilito perchè non produce PIL, non consuma prodotti del mercato se non è guidato dai messaggi pubblicitari, è pericolosamente creativo se non si uniforma con le mode.
Mi pare perciò che l’autoproduzione, l’attenzione all’uso delle risorse, la considerazione del lavoro umano in quanto tale e non in base al salario siano idee importanti da sviluppare, proprio per riprendersi del tempo pieno di significati e abbandonare abitudini/schiavitù insensate. La nonviolenza, secondo me, è la via per la ricerca di un modo diverso di essere, quindi in questo senso possiamo definirla innaturale, perchè implica l’abbandono dei ruoli o degli istinti che abbiamo assunto nel tempo.
Ma a questo punto mi viene naturale parlare di crescita interiore, come sinonimo di decrescita: crescere dentro per non invadere fuori.
Pubblicato da
Alessandro
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